Pubblico questa lettera che sta facendo il giro di tutti social, una mamma come me, ormai non più arrabbiata ma delusa e rassegnata purtroppo.
Leggo ogni sua parola, e subito credo che sia uno scherzo…mi domando come faccia questa madre a sapere tutte queste cose su di me? Ma in realtà la risposta è molto semplice… è prima di tutto una donna.
Leggetela con molta attenzione e fatemi sapere se anche voi avete dovuto fare una scelta…o essere una moglie e madre, o essere una lavoratrice.
Un abbraccio a te mamma che hai fatto la tua scelta.
Caro Beppe,
Dopo giorni di lacrime e dubbi scrivo a te, rendendoti destinatario di un flusso di coscienza ma anche di una dichiarazione di fallimento. Prima di entrare nel merito dello sfogo, ti racconto però un breve aneddoto che ti farà sorridere… Ho sempre sognato di fare la giornalista, fin da bambina, e ti ho sempre letto; quando al liceo ci assegnarono un tema sui nostri miti, mentre i miei compagni parlarono di Che Guevara o di Bob Marley, io parlai di te… Scrissi di volermi occupare di cronaca di costume perché l’unica cosa in cui ero brava era osservare la gente e il mio maestro eri tu… Son passati 20 anni da quel tema e la realtà è che non sono diventata giornalista. Mi sono iscritta a giurisprudenza perché, figlia di magistrato, ho seguito il consiglio paterno, quel genere di consigli che ti pesano come macigni ma che ti sembrano ineluttabili, perché non riesci a contraddire la persona che per te è l’essenza della ragionevolezza. Son finita a fare l’avvocato, neanche troppo brava, e provo anche a fare la madre, ruolo cercato e voluto con lacrime e sangue (ho perso in grembo ben due figli, ma ho due bimbe meravigliose). Ma proprio in questo sta il mio fallimento.
Ci ho provato, disperatamente, a conciliare le due cose. Ho chiesto orari ridotti che mi consentissero di portare le piccole al nido o alla scuola materna, mi sono avvalsa di tate, di aiuti di ogni genere, e per qualche tempo mi sono anche illusa di poter fare tutto. Ma la realtà è che è impossibile. Pur con tutti gli aiuti del mondo, ti ritrovi con il conto in banca prosciugato dagli stipendi alle tate e alle sostitute delle tate, dai folli costi dei nidi e delle attività extrascolastiche (che, pur senza esagerare, ti paiono irrinunciabili, come ad esempio un corso di nuoto, uno di inglese) e al contempo devi convivere con enormi sensi di colpa che ti tormentano. Non riesci a recuperarle da scuola tutti i giorni, non riesci a giocare con loro nel pomeriggio perché devi preparare una cena possibilmente sana e devi organizzare la giornata successiva, non sei abbastanza serena da assicurare loro un sorriso costante ed una parola indulgente, affannata come sei da tanti pensieri.
Ma i sensi di colpa non sono solo questi. Ti sembra di essere una lavoratrice meno solerte degli altri perché esci prima dallo studio rispetto ai colleghi uomini; ti sembra di non essere una brava moglie perché tuo marito ti chiede cosa hai fatto dalle 18 in poi e a te sembra troppo poco farfugliare «Le ho portate al parco giochi, le ho lavate perché erano sporchissime e ho preparato la cena con la piccola sempre attaccata alle gambe»; ti senti in colpa per non riuscire ad avere un rapporto umano o addirittura amorevole con una suocera criticona; ti senti in colpa a scaldarti il cuore con un bel piatto di pasta serale perché sei fuori forma e non hai neppure il tempo di farti una messa in piega; insomma, ti senti sempre e costantemente sotto pressione.
E poi ti guardi intorno e vedi donne ammazzate, donne vilipese, donne aggredite fisicamente e verbalmente, sul web o in televisione. Ma non trovi conforto neppure negli incontri quotidiani con uomini per bene, evoluti e sensibili, i quali (chissà perché) dimostrano sempre una impercettibile sfumatura di diversità nel trattare con una donna o con un uomo. Sono stanca, caro Beppe.
Ti dico la verità, se è questo quello che volevano le donne quando lottavano per i loro diritti, beh, penso abbiano fallito. Sia loro nel prefiggersi uno scopo irrealizzabile, sia noi che siamo state incapaci di realizzarlo. Non è possibile dover lavorare come matte per guadagnarsi la minima credibilità professionale e allo stesso tempo fare i salti mortali per tenere la gestione di una famiglia. Certo, i mariti aiutano, ma il loro apporto è sempre marginale ed il carico fisico ed emotivo è nostro. Non abbiamo nessun aiuto dai Comuni, dallo Stato, nessuna comprensione (se non di facciata) dai colleghi uomini, nessun supporto neppure tra di noi.
Anche tra mamme lavoratrici, millantiamo comprensione e condivisione, ma poi siamo sempre pronte a giudicarci vicendevolmente. Ho il nodo alla gola da giorni e non vedo soluzione, se non una nuova chiave di lettura di questa ormai esasperata condizione.”
Pur non essendo madre, mi identifico molto in questo articolo e rivedo il carico e la sofferenza che ogni donna deve portare, che mia madre ha portato per tanti anni. Nel mio profondo mi sono sempre sentita una “femminista” e ho sempre accolto con perplessità i commenti di quelle donne che invece aborrono la parola: come è possibile che una donna non desideri essere considerata alla pari di un uomo? Poi però penso a come i concetti di parità e uguaglianza, soprattutto fra i due sessi, siano stati distorti negli anni e mi rendo conto del perché siamo tutte così spaventate dal definirci femministe. E’ vero che dei miglioramenti nelle condizioni di vita delle donne ci sono stati, ma è anche vero che si è ancora ben lontani dall’uguaglianza. Gli uomini ci hanno concesso (sì, è proprio il verbo giusto) di lavorare fuori casa, ma spesso non dividono il carico di lavoro fisico ed emotivo che c’è in casa, così ci si ritrova a dover svolgere un doppio lavoro; ci hanno concesso di vestirci come vogliamo e di uscire la sera, ma se qualcuno ci aggredisce perché indossiamo una gonna la colpa ricade su di noi; ci hanno concesso di studiare, ma loro non sanno cosa significhi impegnarsi duramente per poi sentirsi dire all’esame: “Signorina, lei è troppo timida, non posso darle più di 27” (e noi tutte sappiamo bene per cosa stia quel “timida”). Gli esempi sarebbero infiniti.
Il problema è che questo modo di pensare permea sottilmente qualsiasi ambiente, qualsiasi classe sociale, qualsiasi famiglia, qualsiasi uomo. Mia madre per prima, nonostante fosse infelice e frustrata per la propria condizione, quando lasciava la casa a me e mio fratello, chiedeva a me di pulire, stendere e cucinare, senza minimamente pensare che in fondo eravamo entrambi ad usufruire dello spazio, della cucina e dei vestiti, entrambi studiavamo, entrambi avevamo i nostri impegni: il carico di lavoro in più doveva essere mio.
Finché saremo noi stesse per prime a riproporre continuamente gli stessi schemi, come se fossero ineluttabili, le cose non cambieranno mai. Partiamo dai figli, dai fratelli, dai mariti, dagli amici, iniziamo a CHIEDERE aiuto, sostegno, complicità, iniziamo a credere di MERITARCELO, a pretenderlo come un DIRITTO. Siamo la forza che con il suo amore, il suo tempo, la sua dedizione, la sua pazienza, la sua intuizione, la sua intelligenza ha mandato avanti il mondo fin dall’inizio e continueremo a farlo con l’aiuto di uomini più saggi e più buoni, basta crederci.